Il buon pastore

«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce».
Così recita il Salmo 23: il suo autore, il re David, secondo la tradizione aveva esercitato lui stesso da ragazzo la pastorizia e ne aveva quindi tratto ispirazione.

Il bellissimo testo è stato musicato da alcuni fra i più grandi compositori della storia, come Bach e Schubert; più recentemente (e modestamente), anche da diversi autori di musica leggera.

La metafora di Dio come pastore viene ripresa più volte nel Nuovo Testamento: per esempio nella parabola della pecorella smarrita e in un famoso brano del Vangelo di Giovanni: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore».

Ancora oggi nel linguaggio ecclesiastico il termine “pastorale” indica una delle missioni del clero, quella rivolta appunto al “gregge” dei fedeli. E spesso nell’iconografia cristiana Gesù viene raffigurato come pastore, per esempio negli strepitosi mosaici ravennati.


Il successo dell’immagine si deve sia a motivi estetici (la pregnanza del paragone e la facile resa espressiva) sia storici: per molti secoli i destinatari del messaggio evangelico sono stati popoli radicati nelle tradizioni contadine.

Peculiare delle culture contadine però è anche il duro cinismo del proverbio (inteso non nel senso del libro biblico ma come espressione della saggezza popolare): «Le pecore temono il lupo, ma alla fine è sempre il pastore a portarle al macello» (e, si potrebbe aggiungere, non sarebbe un vero “buon pastore” quello che non seguisse questa regola: altro che offrire la vita per le pecore).

Se gli artisti “metropolitani” come Schubert e i maestri mosaicisti non ci hanno pensato potevano essere giustificati, l’ex pastore David no.

Lascia un commento